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A Don Umberto nel suo 46° anniversario di ministero pastorale al SS. Salvatore

20/01/2013

Da 46 anni, in mezzo a noi c’è un uomo di fede: È il nostro don Umberto!
Avrei dovuto dire: non in mezzo a noi, ma alla guida della nostra Comunità, come si addice ad un capo o ad un leader. Ed è anche vero, ma tutti sappiamo che è prima di tutto uno di noi, in mezzo a noi.
Da 46 anni.
Cioè da tanto di quel tempo (si direbbe una vita intera), che oramai ci è familiare, quasi scontato, come un elemento architettonico, come le colonne di questo tempio, come il poetico affresco della Samaritana o il prezioso e struggente Cristo alla colonna. Ed è impresso nei nostri occhi e nel nostro cuore tale che, se non ci fosse, ci sembrerebbe che un terremoto ci avesse demolito un muro portante della nostra casa.
Oltre che familiare, ci si presenta anche consueto, come incontrare il miglior amico della porta accanto, alla quale bussare in qualsiasi ora e per qualsiasi motivo. Tale che se non lo trovassimo ci sentiremmo deprivati di una costola del nostro petto.
Per questo, celebrare l’annuale ricorrenza fa bene a noi prima che a te, caro don Umberto.
Hegel diceva che la coscienza è come la nottola di Minerva, cioè la civetta, l’uccello mitico sacro alla dea, che vola quando sopraggiunge la notte. Alludeva alla piena consapevolezza che si acquisisce solo alla fine di ogni fase della nostra vita, perché la nottola (e quindi la coscienza) si alza in volo al tramonto, quando il giorno è già finito, quando il periodo è già passato; per esempio: l’infanzia, la giovinezza. Proprio per questo, solo dopo ne abbiamo piena consapevolezza e conseguente rimpianto.
O, se vogliamo fare riferimento alla sapienza popolare: un bene lo si apprezza appieno solo quando lo si perde, come la salute, come una persona cara.
Ma noi questo bene lo celebriamo oggi e non cesseremo di farne memoria e di rinnovarne la consapevolezza, intorno alla storica data dell’8 gennaio, per ogni anno che il Signore vorrà ancora concederci, per non rischiare di accorgercene troppo tardi del dono inestimabile che ci ha dato.
E il dono che ci ha dato è questo: la compagnia di un uomo di fede tra noi.
Sì, sono arrivato a questa conclusione, a proposito dell’anno della fede indetto dal papa. Così, mentre cercavo una definizione della fede, in astratto, sforzandomi di indovinare il pensiero del teologo Ratzinger, ho capito invece che di essa ne avevamo un esempio concreto qui, a casa nostra.
Solo Dio scruta i cuori e lui solo ne conosce la fede, ma è anche vero che un albero si riconosce dai suoi frutti; e una lampada dal chiarore della luce che diffonde quando è posta sul moggio.
Don Umberto, tutti noi sappiamo che i tuoi frutti sono buoni; e che la tua luce illumina i nostri i passi dubbiosi, nelle penombre oscure di questo mondo disorientato; poiché chi ti ha incontrato nell’arco di questi 46 anni, caro compagno di strada, ha gustato quelli e ha potuto camminare al chiarore di questa.
Per parte mia, riconosco che la mia fede è troppo fragile e povera, ma ho capito, magari dopo tanti anni buttati al vento, che essa è il bene più grande, più prezioso dell’oro. Credendo in lui, ci possiamo permettere di caricare su questo Cristo alla colonna piegato dai flagelli, tutte le nostre angosce, i nostri rimpianti, i nostri fallimenti, compreso il nostro fardello di peccato. E tornare nuovi.
È come avere contratto gratuitamente una mirabile assicurazione, che si assume in toto i rischi e i sinistri della nostra vita. E allora ci fa liberi, nonostante tutto, di gioire, danzare, cantare, perché tutto questo ci è stato già pagato in anticipo da lui, senza penale, senza obbligo di rimborso. Il premio che richiede questa assicurazione è uno solo; l’unico vero compito essenziale che abbiamo nella vita: amare.
Questa è la vera, unica via della felicità! E allora continueremo a contare su di te per confermare la nostra fede, poiché la tua presenza discreta è come un granello di senape, che in 46 anni è diventato un albero capace di ospitare uno sciame di uccelli, come quelli che cinguettano numerosi nel viale Medaglie d’Oro, la sera; a metà strada e in concerto con i campanili delle due chiese, tra le quali tu intrecci una fitta tessitura di passi e di cure pastorali.
Ma sempre con lo sguardo missionario aperto al mondo, in favore del quale la tua fede si apre alla speranza attiva che esso diventi migliore. È qui unisci fede e speranza a generare l’amore. Amore per i vicini e i lontani; fatto di attenzioni e impegni: quotidiani, costanti, generosi. Orologio alla mano, per non sprecare nulla del dono del tempo.
Tuttavia, non ne fai un motivo di vanto, perché sai che se non è il Signore a costruire la casa, invano vi lavorano gli operai. Per questo, alla fine della tua giornata lavorativa, ti ripeti che hai fatto solo ciò che ti è stato comandato.
Ma tu sai che per quelli che lo amano, il Signore ha preparato, già da ora, cose che occhio umano non ha mai visto, orecchio mai udito e cuore d’uomo mai provato; vale a dire una felicità che il mondo non conosce.
Tu che hai fede nella sua parola, sai che essa non è invano. E se non è invano quella parola, allora non è invano neanche questa speranza di autentica felicità.
La tua e la nostra.
Auguri!
Giovanni Rosa

13 gennaio 2013